AL DI SOTTO DELLE PAROLE Reincarnarsi nel corpo e ritrovare se stessi
- beatricetarga
- 17 giu
- Tempo di lettura: 20 min

Sommario
A partire da un’esperienza traumatica vissuta in prima persona, l’autrice traccia il percorso del trauma attraverso il corpo, nel viaggio del sopravvissuto che si scontra dolorosamente con i limiti della narrazione, trovando soluzione nel rovesciamento del paradigma top-down/bottom up. Il presente articolo cerca di illustrare come il trauma sia un fenomeno per propria natura preverbale e frammentario, difficilmente comprensibile tramite un approccio esclusivamente orientato all’elaborazione consapevole. Attraverso il racconto dei modi in cui il corpo memorizza frammenti dell’esperienza traumatica e li ripropone tramite sintomi corporei che spesso conducono la persona in psicoterapia, si giunge al cervello primitivo come target d’intervento e all’abbandono definitivo della classica dicotomia mente-corpo. Sfuggendo tra gli spiragli lasciati aperti dal classico approccio della psicoterapia fondata sulla parola, il trauma racconta di quanto la dimensione corporea, spesso sottostimata negli studi di psicoterapia, sia centrale nel rapporto della persona con la complessità del reale. Si giunge infine alla consapevolezza di come la volontà di essere utili a una persona che ha subito un trauma richieda in primo luogo una presa in carico del corpo del paziente e alla necessità conseguente della messa in gioco del corpo dello stesso terapeuta.
Parole chiave: trauma, corpo, parola, cervello, psicoterapia, paradigma
Premessa
Nella storia delle persone che sono state protagoniste di un evento che ha minacciato gravemente la loro sopravvivenza, c’è spesso un “prima” e un “dopo”. La scissione è nella natura stessa del trauma, e riguarda «la continuità dell’esperienza, la coerenza del sé e la stabilità dello sfondo delle vittime, la cui esperienza è decontestualizzata» (Taylor, 2016, p. 21). Vivere sulla propria pelle la consapevolezza di stare per morire e rivedere le immagini più importanti della vita che gli sfilano davanti agli occhi è un’esperienza che segna irreparabilmente il sopravvissuto. Percepire a livello corporeo un terrore così intenso da dare l’impressione di sentirsi svuotati è una sensazione che gela a tal punto da imprimersi per sempre nelle percezioni, nei movimenti, nel modo di approcciarsi al mondo di chi è stato vittima di un evento tanto violento, un’esperienza che rivive improvvisamente a livello viscerale anche nell’esecuzione dei più banali gesti quotidiani. Nonostante la consapevolezza di essersi salvata, quella persona non si sentirà mai più al sicuro, perché le immagini, i rumori, gli odori, ma soprattutto le sensazioni corporee di quell’evento rimarranno per sempre scritte dentro lei, sotto la pelle, così in profondità da far domandare a se stessa se davvero possa dire di essersi salvata. Così, basterà un forte rumore o lo sguardo di un passante per riportare improvvisamente il suo corpo a quel momento. É proprio il “corpo” a urlare forte le sue richieste di aiuto, ed è il primo ad attivarsi quando si trova di fronte alla percezione di qualcosa che somiglia a ciò che ha impresso così a fondo dentro di sé. È nella corporeità che il sopravvissuto viene costantemente esposto al trauma, tanto da giungere ad individuare il corpo come causa del proprio disagio (Taylor, 2016). Niente, quanto il trauma è tanto potente nel distruggere la vecchia dicotomia “mente/corpo”. Già Gregory Bateson (Bateson, 1976) suggeriva che la mente è in stretto contatto non solo con il corpo ma anche con il mondo esterno, che ogni differenziazione arbitraria e dicotomica tra i due aspetti corre il rischio di chiudere i due sistemi in un universo di significati causalistici. Il sopravvissuto assiste impotente a una riattivazione sempre più frequente della memoria traumatica nel corpo e alla consapevolezza che se non si vuole restare bloccati dentro quell’evento che ha così marcatamente segnato chi eravamo prima e chi siamo adesso, è necessario prendersi cura di questo corpo che ha “accusato il colpo” (Van Der Kolk, 2014) e ci ha protetti.
23 febbraio 2023, la mia esperienza
Il 23 febbraio 2023 è la data che segna un “prima” e un “dopo” nella mia vita. Stavo facendo il turno di notte insieme a una mia collega nella comunità in cui lavoro. La situazione era tesa da qualche ora: alcuni ragazzi erano fuggiti dalla struttura per poi rientrare in uno stato di agitazione che li ha tenuti in piedi tutta la notte e l’aria era impregnata di una tensione palpabile. La mia collega è arrivata in ufficio con un’espressione molto seria, e mi ha riferito che uno di questi tre ragazzi aveva appena ucciso un rospo davanti ai suoi occhi, dicendo “si inizia con gli animali e si finisce con le persone”, che era stato incoraggiato da altre due ragazze a procedere con “le persone” e che aveva annunciato “vado a prendere il machete”. In quel momento nella mia testa si sono fatti strada tutti insieme un’infinità di scenari confusionari, non riuscivo a realizzare che cosa quell’affermazione potesse davvero significare fino a quando i ragazzi non sono entrati in ufficio, uno di loro brandendo una roncola che fendeva l’aria e il pavimento dicendoci che dì lì a poco sarebbe finito tutto. In quel momento ho sentito il mio corpo che si raffreddava e si scioglieva ai miei piedi, come se mi stesse abbandonando. Per tutto il tempo non ho mai smesso di tremare, così forte che nasconderlo era impossibile. Per diverse ore abbiamo intervallato momenti di dialogo, in cui cercavamo di far calmare e ragionare il ragazzo a momenti in cui lo stesso saliva con l’arma al piano superiore, in cui dormivano gli altri ragazzi, a momenti in cui si recava in giardino per usarla instancabilmente contro un albero con una furia indescrivibile. Non abbiamo avuto la forza di impedirgli di salire al piano superiore dove tutti dormivano inconsapevoli e di recarsi in giardino, con il rischio che uccidesse gli animali della comunità. Allertare le forze dell’ordine era un azzardo che non potevamo permetterci, considerato che avrebbero impiegato più di mezz’ora per raggiungere la comunità, tanto isolata. Abbiamo parlato con quel ragazzo per un tempo interminabile, da giorni manifestava allucinazioni visive e intenzioni poco consone, ma eravamo consapevoli di avere ancora un aggancio relazionale residuo nei suoi confronti e abbiamo continuato a parlare per salvarci la vita. “Ci siamo salvate la vita” è la narrazione della mia collega dopo che è arrivata l’alba, dopo che il ragazzo ci ha consegnato l’arma, dopo che sono nuovamente fuggiti, dopo che abbiamo atteso ore, immobili, senza allertare nessuno perché avevamo ancora troppa paura che tornassero da un momento all’altro, dopo che sono arrivati i colleghi del turno della mattina, dopo che abbiamo capito che era tutto finito. Cerco di farla mia questa narrazione, dico a me stessa che lei ed io abbiamo danzato inspiegabilmente sulla stessa musica sul filo del rasoio senza che nessuna delle due dicesse mai una parola di troppo, che abbiamo avuto coraggio e sangue freddo. Di quelle ore ricordo con assoluta precisione, più che la paura, la sensazione di ineluttabilità di ciò che mi stava accadendo. In quei momenti l’unico pensiero che ti occupa la mente è “quindi finisce tutto così!”. La paura mi impediva di intraprendere qualsiasi iniziativa. Eppure, la mia macchina era appena lì fuori, ci ho pensato: sarebbe bastato prendere coraggio in un momento buono, correre, mettere in moto e fuggire lontano. Eppure, il senso di responsabilità era così forte che mi sono chiesta, e continuo ancora a chiedermi, come sia possibile che certi nostri valori si impongano persino sull’istinto di sopravvivenza. Come sia possibile che io abbia accettato di non fare qualsiasi cosa pur di salvarmi la vita. Dei giorni seguenti il ricordo che ho più vivido è di aver pianto davanti a un trancio di pizza al tramonto e di avere per la prima volta realizzato che ero viva. Per qualche tempo la vita ha ricominciato a fare il suo corso e man mano che i giorni e le settimane passavano mi convincevo sempre più che stava andando tutto bene, che stavo bene. Quando meno me lo aspettavo, il corpo ha cominciato a darmi i primi segnali che qualcosa non andava, e la mia mente l’ha rapidamente seguito. Si era attivato in me un perenne stato di allarme che faceva sì che io fossi sempre pronta a reagire a qualsiasi pericolo si fosse manifestato. Da quel momento si è fatta strada in me la consapevolezza di come ciò che mi era capitato si fosse radicato profondamente nel mio corpo e di come gli strumenti della razionalità e della logica si congelassero nel momento in cui quest’ultimo iniziava a parlare. Da allora qualsiasi rumore forte, secco o improvviso mi riportava in un attimo in uno stato di allerta, mi faceva venire il batticuore, le vertigini e la nausea, mi faceva tremare le gambe; qualsiasi volto, postura o comportamento inusuale e qualsiasi situazione, anche banale, che la mia mente classificasse come potenzialmente pericolosa mi faceva venire voglia di fuggire, e mi portava a chiedere aiuto. Faticavo a capire se la mia capacità di discriminare tra ciò che è pericoloso e ciò che non lo è fosse ancora attendibile e mi sentivo come un animale impaurito. Per molto tempo ho cercato di ignorare tutti questi segnali che inizialmente si manifestavano con una scarsa frequenza e contestualmente all’ambito lavorativo, ho creduto che sarebbero semplicemente diminuiti per sparire all’improvviso. Poi ho finalmente capito che era arrivato il momento di chiedere aiuto. Damasio (1994, p. 25), afferma «l’anima respira attraverso il corpo, e la sofferenza, che muova dalla pelle o da un’immagine mentale, avviene nella carne».
I limiti della parola
Quando parliamo di trauma, cominciamo spesso con il raccontare una storia. Alcuni vogliono soltanto dimenticare, altri invece sentono il bisogno di continuare instancabilmente a narrare. La verità è che il trauma è molto più di una storia accaduta tanto tempo fa e che la sola narrazione difficilmente è sufficiente per elaborare realmente ciò che è accaduto e le sue conseguenze, poiché la semplice azione del raccontare, per quanto importante, non modifica necessariamente le risposte fisiche e ormonali prodotte dal corpo, che rimane in una condizione di perenne allarme. I ricordi che sono rimasti impressi, insieme alle emozioni e alle sensazioni fisiche legate all’evento, sono vissuti non come un fatto mentale, ma come devastanti reazioni fisiche che subentrano nella vita di tutti i giorni. L’esperienza di rivivere il trauma è per propria natura frammentata: i suoni, gli odori, le immagini, le sensazioni viscerali invadono la quotidianità del sopravvissuto e vivono di vita propria. Ciò non deve indurre il lettore a pensare che i sopravvissuti non abbiano una storia da narrare a parole, una storia che dia conto in qualche modo dei sintomi e dei comportamenti di chi la racconta; spesso si tratta tuttavia di una sorta di “storia di copertura”, ripetuta molte volte, nella quale si costruisce un senso da dare agli avvenimenti che ha solo marginalmente a che fare con la verità più intima di chi li ha vissuti. Ciò mette in risalto i limiti del classico approccio basato sulla parola, che preso isolatamente si rivela insufficiente nell’aiutare i sopravvissuti. Rivivere esperienze fortemente negative, come accade di frequente a chi ha subito un trauma, comporta riesperire le stesse emozioni e sensazioni viscerali vissute durante l’evento traumatico, ciò evidenzia l’appropriatezza di espressioni quali “ho avuto un colpo al cuore”, “avevo un nodo alla gola”, “mi sentivo svuotato” ecc. Il sopravvissuto può essere condannato a vivere continuamente in uno stato di “iperarousal” o “ipoarousal”. Quanto più tali segnali di pericolo vengono ignorati, tanto più invadono la vita del sopravvissuto, fino a disorientarlo, spossarlo e a fargli provare vergogna. Come afferma Taylor (2016, p. 29), dobbiamo quindi «riconoscere il ruolo del sistema nervoso nel mediare le nostre interazioni con il mondo circostante; e nella misura in cui questo riguarda l’essere nel mondo del sé che risulta così compromesso dal trauma, possiamo affermare che la cura del corpo costituisce l’essenza di una buona terapia del trauma».
Il cervello tripartito
Potrei raccontare di quella volta che al cinema un signore avanzava lungo il corridoio arrancando nella mia direzione e io ero già pronta a scappare, o di quando in ostello a Barcellona ho interpretato l’espressione di un compagno di stanza particolarmente robusto come estremamente minacciosa, temendo che ci avrebbe aggrediti tutti, ma vi racconterò di quando una sera, giunta alla caserma dei carabinieri per lavoro, ho dovuto dare ascolto al mio corpo. Ero andata a prendere una ragazzina fuggita dalla comunità ed eravamo in sala d’attesa aspettando di essere congedate. Nel frattempo, vedevo qualche carabiniere che faceva fumare una sigaretta a un ragazzo proprio sulla soglia, un gesto che nel mio lavoro ha spesso la valenza di far calmare qualcuno. C’era qualcosa nello sguardo di quel ragazzo e nei suoi movimenti impazienti, ma soprattutto nelle posture di quei carabinieri, nella tensione dei loro corpi, nella rigidità dei loro movimenti, nonostante i loro toni di voce rilassati che mi invitava a stare in allerta. Nemmeno il tempo che lui scattasse e cominciasse ad aggredire tutti i presenti, che io ero già scappata lontano con la ragazza e avevo urlato a qualcuno di metterci al sicuro. Se non mi fossi attivata in questo modo a causa dei miei trascorsi, magari saremmo scampate in qualche modo all’aggressione, ma senz’altro non saremmo potute sfuggire alla nuvola di spray irritante provocata dai carabinieri che si è diffusa in tutta la caserma e che ha mandato in pronto soccorso i più vicini tra loro. Quella è stata la prima volta in cui si è fatta strada in me l’idea che il mio corpo in relazione fosse una preziosa fonte di informazioni. I contributi delle neuroscienze aprono degli spiragli su alcuni vicoli ciechi nei quali si sono bloccati gli approcci psicoterapici tradizionali, fondati esclusivamente sulla parola. Abram Kardiner (1941), uno psichiatra che aveva studiato le reazioni dei veterani della Prima guerra mondiale, notò che chi soffre di una nevrosi traumatica vive in un perenne stato di vigilanza e ha un’ipersensibilità alla minaccia. Un segnale di pericolo proveniente dall’esterno attiva immediatamente il “sistema d’allarme” del cervello, che invia al resto dell’organismo una risposta preprogrammata di attacco/fuga o di freezing. Tale risposta proviene dalle aree più antiche del cervello, che prendono il sopravvento sulla mente cosciente (il cervello superiore) e preparano il corpo a correre, nascondersi, combattere e, talvolta, a congelarsi (Porges, 2014). Per tale motivo, mentre ciascun sopravvissuto vorrebbe semplicemente andare avanti e lasciarsi tutto alle spalle, la parte del cervello deputata a garantire la sopravvivenza dell’individuo rifiuta di dimenticare. Il neuroscienziato Paul MacLean (1990) descrive il cervello come un’organizzazione gerarchica tripartita che include il cosiddetto “cervello rettiliano”, il più antico, il cervello “mammaliano”, evolutivamente più recente, e la “neocorteccia”. Il cervello razionale, la neocorteccia, deputato principalmente a gestire il nostro rapporto con il mondo esterno, è perciò la parte più giovane dell’encefalo e occupa soltanto il 30% dello spazio interno al nostro cranio (Van Der Kolk, 2014). La parte più antica, il cervello rettiliano, è attiva sin dal momento della nascita e presiede a quelle funzioni di base che garantiscono la sopravvivenza dell’individuo (mangiare, respirare, dormire ecc.) e l’omeostasi dell’organismo. Van Der Kolk (2014, p.65) evidenzia come «qualsiasi trattamento efficace per il trauma non possa non tenere conto di queste funzioni corporee di base». Al di sopra del cervello rettiliano troviamo il sistema limbico, noto anche come “cervello mammaliano”, esso, in collaborazione con la parte più antica del cervello, presiede alle emozioni e al sistema di pericolo, determinando se un dato elemento possa configurare una potenziale minaccia per la sopravvivenza. Cervello rettiliano e sistema limbico costituiscono quello che Van Der Kolk (2014) definisce “cervello emotivo”. Una volta rilevato un pericolo, esso ci avvisa affinché venga rilasciata una certa quantità di ormoni, che attiverà a propria volta sensazioni viscerali (batticuore, respiro affannato, nausea etc.) che interferiranno con l’attività del cervello razionale. Il motore della reazione traumatica è situato nel cervello emotivo, che si esprime attraverso il corpo. Nei sopravvissuti a un grave evento traumatico l’equilibrio tra il cervello “emotivo” e quello “razionale” viene meno, determinando ondate soverchianti di emozioni e impulsi; questo meccanismo spiega reazioni di trasalimento a un rumore improvviso o di congelamento rispetto al contatto con un altro individuo. Ogni volta che il sistema limbico realizza che l’individuo si trova in una situazione di pericolo, la comunicazione con i lobi frontali si indebolisce drasticamente e non vi è spazio per alcuna analisi razionale. Capire il motivo per cui ci si sente in quel modo non modifica il modo in cui ci si sente. Per tale motivo, il lavoro primario da fare con il sopravvissuto non consiste nell’elaborazione cognitiva di ciò che è accaduto, ma nel lavorare con il corpo per ripristinare l’equilibrio tra cervello emotivo e razionale.
Prospettiva top-down e bottom-up
Nessuno psicologo, psichiatra o psicoterapeuta esperto potrà mai “trattare” un incidente, uno stupro, una guerra o qualsiasi evento anche meno impattante sulla vita di un essere umano. Non esiste alcun modo di tornare indietro e cancellare ciò che è stato. Tutto ciò che possiamo fare come professionisti per essere realmente d’aiuto è occuparci di ciò che il trauma ha lasciato nel corpo-mente-anima del sopravvissuto. Per fare ciò abbiamo a disposizione due modi di procedere che si muovono in direzioni diametralmente opposte ma non per questo non integrabili: l’approccio top-down e l’approccio bottom-up. La strada “top-down” è quella che, di primo acchito, pare essere maggiormente aderente alla professione di psicoterapeuti e consiste essenzialmente nel parlare, per conoscere e cercare di comprendere ciò che è accaduto, riuscire a raccontarlo ed elaborarlo, nel governare attraverso la corteccia, ciò che accade ai livelli inferiori del cervello. Tuttavia, come fa notare Van Der Kolk (2014), è l’esperienza stessa del trauma che ci impedisce di fare ciò, data la velocità con cui il cervello rettiliano e il sistema limbico si attivano rispetto alla corteccia. La strada bottom-up, al contrario, parte dal corpo e permette a quest’ultimo di esperire concretamente sensazioni, percezioni, emozioni e azioni che contrastano quelle di paura, ansia, vergogna e colpa che vi avevano preso dimora. Le neuroscienze, specialmente negli ultimi anni, hanno raggiunto un certo accordo in relazione alla plasticità cerebrale, che è tale per l’intera esistenza di un essere umano. È possibile continuare a creare pattern di attivazione neurale e disattivare quelli obsoleti ipoteticamente per tutta la vita e ciò fa sì che aree separate del cervello si possano collegare tra loro. È esattamente ciò che accade nel trauma, che attiva a sua volta nuove reti neurali, ed è ciò che accade quando si decide di lavorare su di esso attraverso il corpo, attivando ulteriori reti che depotenzino quelle create dal trauma stesso. Ed ecco che, ancora una volta, l’avere a che fare con il tema del trauma ci chiede un cambio di paradigma, capovolgendo la gerarchia delle terapie d’elezione ed esplorando una serie di strumenti in parte nuovi, in parte inusuali nello studio del terapeuta. Se, come abbiamo visto, il trauma si incarna nel corpo provocando tutta una serie di modificazioni fisiologiche che fanno sì che il mondo venga esperito attraverso un sistema nervoso caratterizzato da una percezione alterata del rischio e da una corteccia che si disattiva in risposta all’attivazione di aree più primitive del cervello, è facile comprendere come un tipo di lavoro centrato esclusivamente su un percorso dall’alto verso il basso possa non essere il più indicato. L’obiettivo primario, a questo punto, non è diventare iper-consapevoli di ogni dettaglio dell’evento traumatico e accettare ciò che è avvenuto, ma riuscire a individuare, notare, essere incuriositi e governare le proprie sensazioni e i movimenti corporei associati. Farsi amico il corpo significa «essere liberi di sapere ciò che sappiamo ed essere liberi di sentire ciò che sentiamo» (Van Der Kolk, 2014, p. 233). Avere esperienze corporee che ripristinino un senso di controllo viscerale su di sé significa ridare potere alla persona, e renderla nuovamente padrona delle proprie azioni.
La psicoterapia sensomotoria
Sentirsi al sicuro nel proprio corpo permette di costruire un ponte solido per ritrovare la parola. Kurtz (2007) afferma che la terapia non è un’esperienza particolare, ma un cambiamento che organizza in maniera differente tutte le esperienze, che ricorda un po’ il “deuteroapprendimento” di Gregory Bateson (1972) nel quale si apprende ad apprendere. In tal senso, anziché riorganizzare verbalmente l’esperienza per tentare una rielaborazione razionale e cosciente, il terapeuta che si avvale di un approccio bottom up aiuta il paziente ad intervenire sulla propria corporeità per far sì che egli divenga curioso e impari un nuovo modo di apprendere, un modo che oltrepassi l’ambito limitato di scelte che il suo corpo gli poneva di fronte in seguito al trauma. Un ulteriore elemento fondamentale, proveniente dall’approccio sistemico, è la “connotazione positiva” delle parti post traumatiche e dei sintomi che la persona porta in terapia. Van Der Kolk (2014, pag. 244) afferma «il modo in cui siamo sopravvissuti coincide irrimediabilmente con ciò che in noi si è rotto». Spesso sono proprio questi sintomi a portare il paziente nello studio del terapeuta, ma altrettanto spesso sono proprio questi stati corporei che al momento dell’evento traumatico hanno permesso alla persona di sopravvivere. Accompagnare il paziente nella comprensione di questa dinamica può aiutarlo a modulare il suo vissuto di impotenza e impedire che i sentimenti di vergogna e colpa ricostruiscano una rappresentazione di sé come degno di biasimo. Quando parliamo di Psicoterapia Sensomotoria facciamo riferimento a un approccio progettato per far fronte ai sintomi corporei e autonomi generati da eventi traumatici. Ogden definisce la Psicoterapia Sensomotoria come “una terapia parlata orientata sul corpo”, e per tale motivo facilmente integrabile nelle tradizionali forme di psicoterapia. Era infatti convinzione di Ogden che per operare sul sistema nervoso autonomo dei pazienti con un vissuto traumatico fosse necessario intervenire a livello subcorticale, prima dell’elaborazione narrativa. La Psicoterapia Sensomotoria si concentra sul favorire nella persona traumatizzata un atteggiamento non giudicante verso le proprie sensazioni corporee, stimolando l’osservazione di qualsiasi evento fisico si presenti e la curiosità verso le sensazioni, le emozioni e i pensieri che lo accompagnano. Come abbiamo visto in precedenza, i sintomi corporei intrusivi conseguenti a un trauma implicano un iperarousal simpatico, mentre i sintomi paralizzanti provengono da un ipoarousal parasimpatico: per far sì che le persone possano nuovamente sperimentare la sensazione di sentirsi al sicuro nel proprio corpo si deve lavorare ai margini della finestra di tolleranza per stabilizzare il sistema nervoso autonomo e coltivare, tramite il lavoro sul “qui e ora”, un livello di eccitazione ottimale. A questo punto è facile comprendere come trascurare il ruolo del corpo in psicoterapia significa privare i pazienti di una fondamentale strada verso il cambiamento e la conoscenza di sé, specialmente quando ci muoviamo nella cornice del trauma. Lo strumento d’elezione è, in questo contesto, la Mindfulness Integrata Relazionalmente. Il nostro corpo rappresenta in modo minuzioso ed efficace il nostro modo di essere e le nostre esperienze: i gesti, le posture, le espressioni del viso, il modo in cui ci muoviamo nello spazio e altri indicatori ancora raccontano con una disarmante sincerità della nostra vita. Sviluppiamo abitudini fisiche nel modo di rapportarci al mondo esterno e interno e le abitudini che si radicano in seguito a un evento traumatico o a esperienze traumatiche prolungate modellano il nostro modo di fare esperienza nel qui e ora. La Mindfulness Integrata Relazionalmente della Psicoterapia Sensomotoria focalizza l’attenzione su ciò che emerge all’occhio della mente, ma si differenzia dai comuni modi individuali e silenziosi di praticarla per la sua natura condivisa, relazionale e verbale. In questo approccio, la disposizione mentale del terapeuta ricorda molto ciò che Gianfranco Cecchin definiva “neutralità”, cioè una posizione curiosa, che porta a sperimentare punti di vista e mosse alternativi i quali generano, a loro volta, curiosità (Cecchin, 1987). Il ruolo attivo del terapeuta nella Mindfulness Integrata Relazionalmente si rivela centrale nel contesto del trauma, poiché un approccio solitario e privo di restrizioni rischierebbe concretamente di portare l’attenzione del paziente su contenuti interni potenzialmente disturbanti e disregolazioni, allontanandolo da quell’atteggiamento di aperta curiosità e accoglienza che è invece protagonista della Psicoterapia Sensomotoria. Ecco, allora, che accanto al terapeuta la paura e l’ansia diminuiscono naturalmente, che il paziente non si sente più messo in scacco dal proprio corpo ma si allena a notare gli eventi corporei nel qui e ora della loro manifestazione e giunge ad accogliere, dando loro il benvenuto, quelle “sorprese sicure’’ dalle quali parte la co-costruzione di un nuovo modo di fare esperienza della realtà (Bromberg, 2006). L’attenzione viene diretta su alcuni segnali non verbali, che sono detti “indicatori”, i quali possono consistere in una particolare posizione, in una variazione della mimica facciale, in un irrigidimento o un cedimento di una parte del corpo, nell’assunzione di un certo tono di voce ecc. Naturalmente, non tutti i segnali non verbali sono indicatori: ciò a cui bisogna prestare attenzione sono quelli che Ogden (2016, p.17) definisce «protettivi, iper-generalizzati e obsoleti», ossia quelli che nel passato si sono sviluppati per proteggere il sé da situazioni intollerabili e garantire la sopravvivenza dell’individuo, cronicizzandosi in seguito fino ad estendersi a situazioni in cui sono divenuti dannosi e non più utili. Durante la seduta questi indicatori vengono portati nel qui e ora in modo consapevole, coniugando la narrazione verbale con quella somatica. Si potrebbe dire che ogni esperienza all’interno della Psicoterapia Sensomotoria rappresenta un piccolo laboratorio. Una persona che tende a collassare fisicamente sulla poltrona potrebbe essere invitata a stressare ed estremizzare questa postura per esplorare con la guida del terapeuta quali immagini, pensieri, emozioni o ulteriori stati corporei vi si associano. Il terapeuta potrebbe svolgere questo esercizio insieme alla persona, per esplorare nuovi significati e allargare le possibilità di nuove narrazioni. Anche la scoperta di un vocabolario sensomotorio ampio e vario può essere estremamente utile, per esempio attraverso l’utilizzo di un “menù” (come dice Ogden) fornito dal terapeuta, ricco di termini relativi agli stati fisici e alle emozioni che aiuti il paziente ad ampliare il proprio lessico di fronte alle esperienze corporee e agli stati interni che vi si associano per divenirne sempre più consapevole. Ecco che uno stato che prima veniva descritto come “terrore” e che adesso trova descrizioni fisiche quali “irrigidimento di…”, “tremore a..”, “ottundimento” ecc. giunge a una maggiore regolazione, l’inenarrabile trova un contenitore e ció permette di stabilire nuovi significati. Con una predisposizione curiosa, la persona che tende a collassare sulla poltrona potrebbe essere incoraggiata a individuare quali sensazioni o pensieri vengono evocati nel momento in cui prova ad allineare la colonna vertebrale e aprire il petto, in un atto fisico che si contrappone a ciò che farebbe abitualmente in modo automatico, e a riflettere su come i pensieri, le emozioni e le altre sensazioni ne vengono influenzati. Ancora, se questa persona si è ritrovata in uno stato di “freezing”, il terapeuta potrebbe usare il proprio corpo proponendo un’attivazione per sperimentare il “no” sotto una molteplicità di forme: urlandolo ad alta voce, scandendolo con diversi toni di voce, esprimendolo con movimenti del corpo oppure mettendo in atto un’azione di difesa mai sperimentata (allontanarsi, mettere le mani davanti a sé, spingere via ecc.). Questi esperimenti fanno sì che ogni postura, fisica e psichica, adottata venga notata e consapevolizzata, esperita pienamente e messa alla prova in una co costruzione tra terapeuta e paziente in cui pattern d’azione appresi in modo inconsapevole e cronicizzati possano riorganizzarsi in modo più funzionale e flessibile.
Il mio corpo al di sotto delle parole
“Al di sotto delle parole” è il luogo da cui ripartire per ritrovarsi. La notte del 23 febbraio 2023 il mio corpo è entrato in uno stato di freezing e ha fatto di tutto per proteggermi. La mia narrazione si era irrigidita a tal punto con il trascorrere del tempo che ero sempre stata convinta di aver avuto un ruolo particolarmente attivo quella notte, aggirando costantemente la domanda sul perché non avessimo chiesto aiuto. Ricordo bene le sensazioni fisiche, più che le emozioni e i pensieri di quella notte, e oggi riesco finalmente a vedere come i “sintomi” corporei che mi hanno condotto in terapia abbiano avuto la funzione di salvarmi la vita in un momento in cui il mio cervello più evoluto, cui sempre mi sono affidata nella vita, non rispondeva più. Notare ciò che ci accade momento per momento con curiosità e voglia di sperimentare fa sì che ad accompagnarci non sia più la paura e un senso di smarrimento ma la voglia di scoprire di quante cose siamo capaci. La mia esperienza trasformativa bottom-up è accaduta “per caso”, senza che io fossi andata a cercarla. Ero nel bel mezzo di questo lavoro di tesi e pensavo di aver scoperto qualcosa di incredibilmente potente, ma continuavo a viverlo attraverso le pagine dei libri. Poi un giorno, tornate a IDIPSI dopo la pausa estiva, al mio gruppo è stata proposta un’attività che fa capo a una disciplina chiamata “Movement” che mi ha costretta, al di là, o al di sotto di tante parole a immergermi completamente nel mio corpo. Abbiamo iniziato a muoverci nello spazio camminando, cercando di occuparlo uniformemente: ero già in difficoltà; sentivo il mio corpo completamente rigido e cercavo di razionalizzare l’esperienza e riderci su, dato il livello di disagio che calarmi così rapidamente e silenziosamente in me mi provocava. In seguito, l’indicazione è stata quella di eseguire l’esercizio a un ritmo sempre più veloce e il livello di profondo disagio non ha fatto che aumentare. Mi sentivo come se il mio corpo non rispondesse e mille pensieri cominciavano ad affollarmi la mente. Successivamente ci siamo fermate, abbiamo chiuso gli occhi e immaginato di spalmarci dell’argilla fresca su tutto il corpo senza dimenticare nemmeno un piccolo pezzettino. L’esperienza di chiudere gli occhi, sentirmi ben radicata al terreno, solida e sicura e concentrarmi nel sentire l’argilla posarsi su tutto il corpo, dai piedi fino alla testa, spalmandola sul viso come una crema, passandola tra i capelli e tra le dita delle mani mi ha procurato una sensazione di calore che si è irradiata in tutto il corpo e mi sono scoperta improvvisamente connessa con me stessa. Il corpo ci dice tante cose se ci fermiamo ad ascoltare. Il mio mi stava dicendo che in quel momento ero lì, ero viva, e che non mi aveva mai abbandonato. Sono rimasta in ascolto per sentire cos’altro volesse dirmi. Quel pomeriggio sono successe tante cose: l’argilla asciutta ha iniziato a mostrare piccole crepe e mi ha permesso, piano piano, di muovermi. Erano movimenti impercettibili di chi si sta svegliando da un lungo sonno e ho lasciato che si spostassero in tutto il corpo. Mi sono lasciata andare, non senza qualche resistenza, tra le braccia di altre persone e mi sono fatta forte per sorreggerle e proteggerle, per accoglierle con intenzione. Ho ascoltato altri corpi attraverso il mio e mi sono lasciata ascoltare fiduciosa, accogliendo la leggerezza e la pesantezza, la solidità e la fragilità, il pieno e il vuoto. Mi sono fatta trasportare in un dialogo silenzioso fatto di sguardi e gesti. Ho danzato polso a polso con altri corpi, tracciando mondi immaginari e lasciandomi guidare con gli occhi chiusi nei paesaggi sognati da altri. E poi abbiamo sognato tutte insieme danzando fuori dal tempo. E ho volato. Ed è stato incredibile. Ero improvvisamente leggera come se ciascuna delle mie compagne di viaggio si fosse messa sulle spalle un piccolo pezzetto del carico che stavo portando, e la leggerezza è diventata speranza, e voglia di vivere. Non era più quella voglia di vivere disperata, tormentata e impaziente che mi ha accompagnata da quella famosa notte, ma la consapevolezza di poter nuovamente sentire le farfalle nello stomaco per l’emozione di esserci.
Bibliografia
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-Bromberg, P. M. (2006). Destare il sognatore: percorsi clinici (R. Cortina, Trad.). Milano: Raffaello Cortina.
-Cecchin, G. (1987). Revisione dei concetti di ipotizzazione, circolarità, neutralità. Un invito alla curiosità. Ecologia della Mente, 5, 30-41.
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